RASHOMON
(Rashomon, Giappone 1950, b/n, 88’)
di Akira Kurosawa. Con Toshiro Mifune, Machiko Kyo, Takashi Shimura, Masayuki Mori, Minoru Chiaki, Kichijiro Ueda, Fumiko Homma.

Un monaco (Chiaki), un boscaiolo (Shimura) e un passante (Ueda) discutono del caso di un bandito (Mifune) accusato di avere ucciso un samurai (Mori) e di averne stuprato la moglie (Kyo). Ognuno dei partecipanti (i morti vengono evocati da una maga) racconta una versione diversa dei fatti, accollandosi la responsabilità del delitto, ma scaricandone la colpa sugli altri due. Il boscaiolo riferisce una quarta versione, che non va a onore di nessuno dei tre. Congegnato con grande abilità e un superiore senso di ironia, e girato con uno stile nervoso e molto moderno. Il film che ha reso noti Kurosawa, Mifune e la Kyo in Occidente, Leone d’Oro a Venezia e Oscar per il miglior film straniero. Accusato di essere troppo europeizzante dagli occidentali (ma i racconti di Akutagawa da cui è tratto sono degli anni Dieci), e poco amato in patria: i produttori non volevano mandarlo a Venezia perchè pensavano fosse poco esportabile.

I SETTE SAMURAI
(Shichi nin no samurai, Giappone 1954, b/n, 140’)
di Akira Kurosawa. Con Takashi Shimura, Toshiro Mifune, Yoshio Inaba, Seiji Miyaguchi, Minoru Chiaki, Daisute Kato, Ko Kimura, Kamatari Fujiwara, Kuninori Kodo, Bokuzen Hidari.

Nel Giappone del Cinquecento, sconvolto dalle guerre civili, alcuni contadini assoldano sette samurai per difendersi dai briganti. Vincendo le barriere di classe, i mercenari solidarizzeranno con gli agricoltori e si sacrificheranno per loro: alla fine il saggio capo (Shimura) dei samurai sentenzia: "Ancora una volta abbiamo perso... i veri vincitori sono loro". Uno dei capolavori di Kurosawa (autore anche della sceneggiatura con Shinobu Hashimoto e Hideo Oguni), un film d’avventura dal respiro epico che cela un’elegia della terra e della solidarietà, com’è nello spirito umanitario del regista. Al centro c’è il confronto-scontro tra due culture, quella della campagna e quella delle armi, e se la prima è descritta nella sua globalità, attraverso il ritratto collettivo dei contadini, la seconda è più approfondita e i sette differenti caratteri dei samurai incarnano aspetti diversi della morale e del comportamento giapponese: Kambei (Shimura) è la saggezza e il disincanto (capace di sottolineare il carattere autodistruttivo dell’impresa), Heihachi e Gorobei (Chiaki e Inaba) sono l’astuzia, la giovialità, il buon senso, Kyuzo (Miyaguchi) è la concentrazione ascetica, Katsushiro (Kimura) rappresenta l’entusiasmo della gioventù, la generosità e l’idealismo, Shichiroj (Kato) è la professionalità che vuole restare nell’ombra, Kikuchiyo (Mifune) è il personaggio che lega le due culture con le sue origini contadine e la sua scelta di diventare samurai per volontà, timido dietro le sue audacie, sbruffone ma sostanzialmente insoddisfatto. Raccontato con il fascino e la grandezza delle cose semplici e profonde, il film è soprattutto un incitamento contro la rassegnazione e lo scoramento, visti come i due grandi nemici dell’uomo. Questa è la versione doppiata, ridotta a soli 140’, rispetto alla versione originale di 200 minuti. Rifatto a Hollywood come I magnifici sette (1960).

VITA DI O-HARU, DONNA GALANTE
(Saikaku ichidai onna, Giappone 1952, b/n, 148’)
di Kenji Mizoguchi. Con Kinuyo Tanaka, Toshiro Mifune, Masao Shimizu, Ichiro Sugai, Tsukue Matsuura, Kiyoto Tsuji.

Nel XVII secolo, un’anziana prostituta (Tanaka) rievoca la sua vita infelice iniziata quando, giovane nobile, si concede a un uomo di estrazione inferiore (Mifune) e viene considerata alla stregua di una prostituta. Costretta a dare un discendente a un signore la cui moglie è sterile, non può mai vedere suo figlio ed è obbligata a subire le voglie degli uomini (che la ricattano per il suo passato) e le invidie delle donne: sarà umiliata per tutta la vita e dopo aver finalmente visto il proprio figlio, finirà i suoi giorni dedicandosi alla religione. Presentato al festival di Venezia nel 1952 (dove ricevette il premio internazionale), questo film rivelò al mondo occidentale il valore del cinema giapponese e la statura di Mizoguchi. Tratto da un romanzo di Sakaku Ihara (e sceneggiato da Yoshikata Yoda), racconta la vita di una "donna galante", condannata a essere vittima dell’egoismo sociale e destinata a sperimentare sulla propria pelle l’esperienza estrema della tragedia. Condannata dalla fatalità (i suoi momenti di cedimento sono sempre scoperti) ma anche da un’organizzazione che si basa sulla soggezione della donna, la vita di O-Haru è un susseguirsi di schiavitù imposte dall’altro sesso, visto sotto i diversi aspetti del padre, del signore, del padrone, dell’amante, del marito, del figlio o del semplice cliente della casa da tè. Costretta a rimandare sempre il sogno di una vita finalmente realizzata (accanto a un uomo prima, e vicino al figlio poi), O-Haru diventa una specie di sintesi dell’eroina mizoguchiana, calpestata ma non spenta, che il regista mostra quasi invariata nei diversi stati della sua vita, come a sottolineare l’immutabilità di una situazione e la "condanna di un destino dove ogni momento riflette la totalità delle sue disgrazie". Questa interscambiabilità è accentuata ancora di più dallo stile contemplativo di Mizoguchi, implacabile nella sua crudele lucidità, e da una messinscena dominata dai piani sequenza, dove per contrasto le carrellate che accompagnano l’unico momento in cui O-Haru può vedere suo figlio "raggiungono un’intensità emotiva lancinante".

L'INTENDENTE SANSHO
(Sansho Dayu, Giappone 1954, b/n, 124’)
di Kenji Mizoguchi. Con Kinuyo Tanaka, Yoshiaki Hanayagi, Kyoko Kagawa, Masao Shimizu, Eitaro Shindo, Ichiro Sugai.

Nel Giappone dell’XI secolo, Zushio (Hanayagi), figlio di un governatore caduto in disgrazia per le sue idee umanitarie, cresce separato dalla madre (Tanaka) sopportando condizioni durissime insieme alla sorella Anju (Kagawa) con cui è ridotto in condizione di semischiavitù dal crudele intendente Sansho (Shindo). Diventato adulto saprà riabilitare il padre, riconquistare il suo ruolo nobiliare ed esiliare Sansho - abolendo la schiavitù - prima di lasciare ogni potere per andare alla ricerca della madre. Tratto da una leggenda medioevale rielaborata dal romanziere Ogai Mori (sceneggiata da Yoshikata Yoda e Yahiro Fuji Miyagawa), è uno dei capolavori dell’ultimo Mizoguchi. Insolitamente più maschile che femminile rispetto ai film precedenti, segue un percorso duplice: da una parte si presenta come un "film di formazione" in cui il giovane protagonista apprende la necessità di una propria rivolta morale, dall’altra è un’intensa meditazione sull’oppressione sociale e politica esercitata dalla Storia e dal Potere. Energico e brusco nella prima parte (che contiene dei flashback, rarissimi per l’autore), più disteso ed elegiaco nella seconda, culmina in una scena finale - il ritrovamento della madre sulla spiaggia - che è uno dei momenti più emozionanti di tutto il cinema di Mizoguchi.

L'ARPA BIRMANA
(Biruma no tategoto, Giappone 1956, b/n, 116’)
di Kon Ichikawa. Con Shoji Yasui, Rentaro Mikuni, Taniye Kitabayashi, Tatsuya Mihashi. 

In Birmania, alla fine della seconda guerra mondiale, un ufficiale giapponese fedele al proprio codice d’onore militare preferisce sterminare il proprio reparto, pur di non arrendersi ai vincitori: il fatto è raccontato dall’unico sopravvissuto, un soldato (Yasui) che ha deciso di farsi bonzo per dedicarsi al culto dei morti e vaga nella giungla birmana in compagnia di un pappagallo e un’arpa. Leone mancato a Venezia per l’opposizione del giurato Visconti, il film conquistò le platee di tutto il mondo con il suo semplice ma efficace messaggio antimilitarista. Affascinante l’uso della musica che contrasta con il mutismo del bonzo e mitiga, insieme alla presenza lirica della natura, il senso ossessivo della morte caratteristico del regista. Nel 1985, Ichikawa ha rifatto lo stesso film con altri interpreti, ma questa edizione non è mai stata distribuita in Italia.

CRONACHE ENTOMOLOGICHE DEL GIAPPONE
(Nippon konchuki, Giappone 1963, b/n, 123’)
di Shohei Imamura.

Storia di Tome, ragazza di campagna e poi, in città, prostituta e mezzana alla ricerca caparbia del benessere. Nessuna difficoltà o sconfitta riuscirà a piegarla.

IL PROFONDO DESIDERIO DEGLI DEI
(Kamigami no fukaki yokubo, Giappone 1968, col., 172’)
di Shohei Imamura.

In un’isola dei mari del Sud, un ingegnere proveniente da Tokyo si misura con una cultura arcaica, di cui non sospettava neppure l’esistenza, e che lo segnerà per sempre.

SONATINE
(Sonatine, Giappone 1993, col., 94’)
di Takeshi Kitano. Con "Beat" Takeshi (Kitano), Aya Kokumai, Tetsu Watanabe, Masanobu Katsumura.

Murakawa (Kitano), yakuza stanco del suo mestiere, viene inviato dal suo capo nell’isola di Okinawa, per aiutare una gang alleata contro dei rivali. Sulla spiaggia Murakawa gioca alla roulette russa con i suoi nuovi amici, simpatizza con una ragazza (Kokumai) vittima di uno stupro, finchè capisce di essere stato tradito, e va incontro alla morte come l’eroe di un film di Jean-Pierre Melville. Il capolavoro di Kitano (anche sceneggiatore): un noir che parte all’insegna dell’umorismo nero e del sarcasmo (la scena della tortura subacquea mostra come la regia si tenga in equilibrio tra cinismo e orrore, senza scadere, alla fine, nello sberleffo alla Tarantino), si trasforma in un beach-movie metafisico che manda all’aria ogni suspense banale da film di genere, e finisce all’insegna di un’epica nichilista. Kitano è uno dei pochi registi contemporanei che si chiede ancora dove collocare la macchina da presa e come montare le immagini, senza accettare nessun tipo di convenzioni. Il sangue scorre come in un film di Peckinpah, ma la sintassi astratta delle scene d’azione potrebbe essere stata immaginata da un Ozu o, meglio, da un Bresson. Il bello è che questo modo di narrare imprevedibile e folgorante non si esaurisce nel formalismo, ma sottende una visione amara della vita come ilare avvicinamento alla morte. Per quanto vincitore del festival di Taormina, questo film - tra i più belli negli ultimi anni - si è visto solo nottetempo in televisione.

HANA-BI - FIORI DI FUOCO
(Hana-Bi, Giappone 1997, col., 103’)
di Takeshi Kitano. Con Takeshi Kitano, Kayoko Kishimoto, Ren Osugi, Tetsu Watanabe, Yasuei Yakushiji.

Dopo una sanguinosa caccia all’uomo il poliziotto Horibe (Osugi), paralizzato, trova pace nella pittura, mentre il taciturno collega Nishi (Kitano) contrae un debito con gli yakuza per aiutare l’amico, rapina una banca perchè non li può rimborsare e inizia una fuga verso il nulla con la moglie Miyuki (Kishimoto), malata terminale. La violenza come stupore di fronte all’incomprensibilità della vita, la morte come tenerezza impossibile: al di là di tutti i generi, Kitano gira con uno stile folgorante e contemplativo fatto di accelerazioni e accostamenti imprevedibili, ma ha anche il talento di suscitare emozioni vere, rare nel cinema contemporaneo. Esplicito, questa volta, il rapporto con la cultura tradizionale giapponese, che con i suoi luoghi sacri ridotti ad attrazioni turistiche fornisce un controcanto ironico e patetico all’ultimo viaggio di Nishi. Meritato Leone d’Oro a Venezia. I due ideogrammi del titolo originale significano separatamente "fiore" e "fuoco", e insieme "fuoco d’artificio".